Joumana Haddad

Joumana HaddadTraduzione dall’arabo: Oriana Capezio

M’insinuo nello specchio fino all'essenza
Fino all'essenza m’insinuo nello specchio.

Laggiù, nell'utero dal quale affiorai, imparo il gioco della mia morte:
Chiudere gli occhi. Soffocare come uno sguardo dietro una finestra. Agonizzare. Tentare la fuga. Non essere in grado di fuggire. Fermare i battiti del mio cuore. Esalare l'ultimo respiro. Affidare la mia anima. Dissolvermi come vapore. Prendere coscienza (con la famiglia e i miei cari) della mia morte. Piangere la mia sorte con la famiglia e i miei cari. Osservare il mio cadavere con chi lo osserva. Pregare sul mio cadavere con chi prega. Invocare. Giubilare. Lamentare ad alta voce: "Donna, a chi lasci la tua famiglia? A chi lasci i tuoi figli e i tuoi cari?".

Ancora:
Lavare il mio corpo. Aromatizzarlo, profumarlo e decorarlo con l'henné. Indossare il mio abito nuziale / abito ferale. Accendere una candela accanto alla mia testa. Giocare con la candela come una bambina. Vegliarmi. Dirigermi verso casa per dirmi addio. Avvolgermi, l'indomani, in un sudario di seta. Riscaldarmi i piedi in candidi calzini (attenzione a non dimenticare i calzini). Stendermi in una bara di legno incisa (che sia colorata: ho sempre amato il legno colorato). Incrociarmi le braccia sul petto (forse no, così non mi riconosco). Chiudere lentamente il coperchio della bara. Insultare il becchino per il cigolio. Uscire di nuovo. Andare in cucina e tornare con l'ampolla dell'olio. Ungere i cardini dell'involucro. Portare l'ampolla al suo posto, sulla seconda mensola dell'armadio alto, a sinistra. Stendermi di nuovo e chiudere il coperchio. Tremare per un po' nel buio. Abituare i miei occhi all'oscurità e l'oscurità ai miei occhi. Portare il feretro sulle mie spalle. Incedere lungo il corteo funebre. Accendere al mio passaggio le luci della strada per onorare il mio ricordo. Assistere al mio funerale. Sbadigliare durante la funzione e lamentarmi che sia troppo lunga. Piangere ancora la mia sorte. Chiedere perdono. Dirigermi verso la mia tomba. Svegliare la zappa sopita. Scavare un fosso nella terra. Scavare con più forza e più in profondità. Seppellire con una corda la bara. Posare dei fiori (preferisco i tulipani gialli). Spargere della terra. Sotterrarmi bene. Ricoprire il fosso e livellare il terreno. Delimitare la mia tomba con una lapide di marmo incisa col mio nome e una frase dell'ultima (prima?) poesia. Porre delle corone di fiori sulla mia tomba (ripeto: preferisco i tulipani gialli).

Ancora:
Tornare a casa, estenuata. Dedicare tre giorni alle condoglianze. Mangiare alla salute della mia anima. Bere del caffé nero in onore della mia anima. Portare il lutto per trentatré giorni (per cortesia, non di più) Decompormi. Essere mangiata dai miei stessi vermi. Svanire. Fare visita alla mia tomba ogni mattina (non troppo presto, mi piace svegliarmi tardi). Cantarmi la buonanotte e chissà forse danzare con me stessa per distrarmi. Passare sulle soglie senza essere vista. Competere con me stessa senza essere vista. Tremare senza essere vista. Stare sul muro delle anime, sull'orlo del settimo precipizio, senza cadere.

Ricordare la luce, io, la lontana
Poi ricominciare
così
fino
alla
fine
dello
specchio.

***

LO SPECCHIO DI MARINA

Marina Tsvetaieva, poetessa russa nata nel 1892, si è suicidata impiccandosi a quarantanove anni

Contemplo il mio cadavere disteso e mi trovo bella. Bella come una leggenda ferita. Bella come solo un altra può essere bella.

Contemplo il mio cadavere e il mio cadavere è una corda. Sono la sua funambola, il suo ostaggio. La corda vibra e minaccia di rovesciarmi. Mi avvinghio a lei e la maledico. Poi, improvvisamente, si trasforma in una scala, una voragine, un abisso dove in eterno saluto le montagne che partono senza di me.

Non sei lungo, mio cadavere, neanche languido, e sicuramente non sei soave. Un fil di nervi sei, discreto. Non ti opprimono sentimenti, virtù né ambigui pensieri. Non hai parole da proferire, storie da raccontare né una bocca da baciare. Non ti sfiorano metafore, non ritornano echi dispersi. Nessun remoto sogno riposa alla tua ombra, scurita dal tuo pallore.

Si danzerà ai miei funerali, è certo. Ci sarà una parola per ogni bocca, un nuovo odio per ogni cranio spaccato. Si danzerà ai miei funerali e l'erba sarà greve sotto i passi. Spietata sarà la collina da scalare (o discendere), come il ventre di una madre che ha già donato tutto.

Questa corda, su cui incedo inerte, è il mio cadavere. Inutile metterlo in una cassa di legno. Stendete un lenzuolo e invitate gli uccelli a posarcisi sopra. Non recitate salmi e soprattutto non piantategli fiori attorno. Mettetevi piuttosto in ginocchio e chiedete perdono al fogliame che vi ha dato ombra, agli abiti che vi hanno coperto, al cielo che sopporta le vostre umane immondizie.

Il dipinto del morto comincia da una sola goccia di sangue, da una sola pietra in tasca, dal primo passo verso l'ombra. Contemplo il mio dipinto e mi trovo bella. Per me le api rinunciano al miele, gli ombrelli alla pioggia. Sotterrerò le mie labbra su questa terra solcata. Laggiù libererò il mio respiro, nel terreno, nella polvere, nell'umidità, nei metalli e nei vermi. La fiamma delle mie spoglie brillerà sotto i vostri talloni, o furbi. Laggiù leccherò il sale che conoscete, senza sfamarmi. Laggiù canterò: mani luccicate, grida scappate, poesie insegnatemi come sparire. Canterò:

Io la cattiva
la malvagia
la sanguinaria
colei che si cela nella sua verità,
che stringe le sue stesse mani
e avanza verso l'isolamento,
Io, che non sono mai stata di nessuno
io, che appartengo solo alla fuga
sarò
infine
mia.

Non aspetto niente.
Non mi aspetto niente da voi:
Il mio cadavere mi sorride, il mio collo è quasi trasparente e sono in viaggio verso l'oblio.

Sì, sono bella, e soltanto le mie unghie sporche mi tradiscono.
Andiamo, andiamo: adesso danzate!

***

CANTO DI SALOMÉ FIGLIA DI LILITH

Non temo il diavolo
perchè egli mi sogna.
Quando chiudo gli occhi e mi dondolo allo specchio
mi vede.
Non mi spaventa il diavolo
E danzerò sulle rosse ceneri di Erode
berrò il vino da una mano vergine
bacerò il mio amato sulla bocca
Per un'ultima volta
affinché mi sorrida la morte.
Tu, mio amante perfetto,
domatore di iene, signore del deserto,
non senti la tua ghigliottina,
il mio cuore,
che ti chiama?
Giovanni, vieni
io sono la collana fidanzata al tuo collo reciso.
Vieni, battezzami con il sole che ti ha scurito.
Solo per te sono tornata:
lascia che il tuo sangue sprecato
ti mostri il cammino.

***

LA PANTERA NASCOSTA DOVE INIZIANO LE SPALLE

Ha la chioma più lontana di un piacere appena passato, nel sorriso mille promesse non impediscono la pioggia. I suoi colori sono una tavolozza di tremiti: ora cicatrici di ombre e ora splendore di coltello. Nessun postino suona alla sua porta perché non se ne conosce la dimora. Non se ne conosce la fine perché è libera come un albero.
E come l’albero, ascende.

Vieni
Raccoglila a flutti nei tuoi occhi

Il suo giardino, fortezza che effonde l’intrigo e dolce morte che annusa la preda. Si percepisce il diavolo a casa sua.
Non possono catturarla gli sguardi, né i calici: donna di vapore, d’incertezze e di fantasie. Anche donna di cadute.
Sulla sua pelle si muovono un’infinità di continenti ignoti. Ogni ciottolo è un falso giuramento, liscio come le attese viste da lontano, ogni mano è un viaggio, ogni mattino è un viaggio. Ma solo traiettorie orizzontali, e quante poche scalate!

Vieni
Fissa le tue vette nei suoi abissi

Tanto pudica che si rifugia nelle parole oscene, insolente al punto da ruggire gridando il suo fuoco. Guerriera appassionata, amazzone di carriera, lancia le sue parole come frecce e le sue frecce tornano a lei cariche di prede.
Parla tutte le lingue della notte, ma scrive soprattutto con le unghie. Allo stesso modo scrive il corpo. Maledette sono le dita che non possono decifrare i timbri appuntiti della sua estasi. Dalla scollatura dei suoi gemiti si elevano musiche, canti, rumori e mormorii. Violino in eruzione, cerca il falegname di note che saprà far vibrare le sue corde. 

Vieni
 Incidi i suoi bordi
 sulla memoria dei tuoi palmi

Golosa e tutta vestita di bocche, è fatta per degustare ed essere degustata. Le sue labbra sono commestibili e la sua lingua è un cucchiaio infinito di delizie.
Ghiotta di sapori delicati, se ne offre senza fine mentre resta a vegliare la sua fame.
Il divieto, clitoride della sua testa…
E il suo ventre? Campo di grano dove scintilla il pane del desiderio…

Porta la tua falce, mietitore!
Prendi, spremi, inumidisci
Carezza, arrotola, srotola
sii l’ascia e il boscaiolo
il senso e il senso contrario
che il tuo ricordo maturi i frutti
che la tua mano navighi nell’attesa fluida
che le tue dita si contendano la luna e l’annegamento
perché il fiume non cominci a scorrere
se non quando l’albero si piegherà su di lui:
è il desiderio che fa muovere le montagne
non la fede.

***

ADRENALINA

Il mio libro di chimica afferma
Che quando ti ho visto per la prima volta
il mio sistema nervoso
ha trasmesso segnali in codice al mio cervello
Poi la mia ghiandola endocrina
ha emesso ormoni di ogni tipo
e li ha inviati come messaggeri ai miei sensi
Che si sono infiammati…
E quello è l’amore!

Quello stesso libro rettangolare e rosso dice:
Se siamo innamorati
è grazie all’endorfina
e dovrei ringraziare anche
il testosterone e la luliberina,
soprattutto non bisogna dimenticare la dopamina,
questa astuta che sussurra al mio orecchio:
«cerca la fonte del piacere!».
«cerca la fonte del piacere!».
un cocktail erudito,
ecco cos’è il colpo di fulmine,
una reazione biologica
un fiotto di sangue nelle vene
una corrente elettrica tra le cellule
e un po’ di magnetismo.

La norepinefrina per la mancanza,
e per inturgidire i seni;
la feniletalamina per dilatare le pupille
e far tremare la mano nella mano
ah, dimenticavo:
l’ossitocina per l’attaccamento,
la serotonina per vincere la noia
quanto alla vasopressina…
che invenzione diabolica!
è per questo che non tollero
altri uomini se non te.

I meccanismi sono semplici,
assicura il mio piccolo libro:
dei ferormoni di un certo tipo,
rilasciati dal corpo al primo contatto,
eccitano la materia grigia
e producono languore
che diventa attrazione soggiogante
poi disturbo funzionale,
poi ossessione compulsiva,
poi bisogno organico, assuefazione, avvelenamento
e questo avvelenamento,
dichiara la chimica,
questo avvelenamento è l’amore.

E= mc2
dice la fisica a sua volta,
e se ti trovo meraviglioso
senza pari
e non vedo né difetti né debolezze,
è perché la relatività regna nell’universo,
e la relatività,
così come l’avvelenamento,
è l’amore.

Cliniche e laboratori,
cifre e tomografie
esaminano i fenomeni della gelosia e dell’adulazione,
studiano il fascino e la seduzione,
decifrano i segreti della passione
e le ore passate a contemplare
il maledetto telefono aspettando che suoni,
e il mistero della gola quando si restringe,
e il desiderio ardente che incendia i vestiti
e questa sensazione inebriante di fluttuare.
adrenalina,
tutto è adrenalina amore mio:
la vera romantica è la testa,
affermano i radiologi,
ed è nel cranio,
non dal lato destro del petto,
che nasce l’amore.

I miei affidabili libri scientifici,
le mie enciclopedie e i riferimenti,
attestano che non c’è motivo di meravigliarsi,
che è tutta una questione di geni,
di dosi, equazioni e formule.
Ossia, non c’è motivo di stupirsi,
eppure quando ti guardo
quando sento un cuore nel mio cuore
e un altro in quello lì e un quarto un quinto
fino all’infinito,
come cerchi immortali sulla superficie di un lago,
e quando da questi cerchi appare il tuo nome,
il tuo nome e nessun’altro,
senza dubbi né paure
senza spiegazioni né analisi:
vita data e vita ricevuta
con la naturalezza di un fiore selvaggio che cresce
senza volontà di alcun essere,
quando dormo in te, albero che dorme in un albero,
e in un tiro di dadi ti offro
tutti i giorni tutto il mio essere;

In quel momento, dico,
è questo
e solo questo
l’amore.

16-2-2009