L'età dell'oro prima dei 15 anni di guerra civile nel racconto nostalgico di Samir Kassir
Il brano che proponiamo in questa pagina è tratto dall’Introduzione di Beirut. Storia di una città, il saggio di Samir Kassir in uscita da Einaudi (pp. XLVIII + 697, e35). Storico, giornalista e attivista, tra i più importanti intellettuali mediorientali, Samir Kassir, nato a Beirut nel 1960 da padre palestinese e madre siriana di religione greco-ortodossa, è stato ucciso il 2 giugno 2005 nella capitale libanese dall’esplosione di un’auto-bomba (nella foto, il manifesto affisso dai suoi compagni del movimento politico Sinistra Democratica di cui era stato tra i fondatori). Dopo avere studiato e lavorato a Parigi, era tornato in patria negli anni Novanta, insegnando all’Università Saint-Joseph, continuando l’attività giornalistica e sostenendo con passione la fine della tutela siriana sul Libano, la democratizzazione della Siria e la causa palestinese. Poco prima di essere ucciso, era stato tra gli animatori delle manifestazioni di massa anti-siriane seguite all’assassinio dell’ex premier Hariri.
Nell’immaginario della perduta età dell’oro che gli slanci della nostalgia ordiscono attorno a Beirut, l’apogeo si colloca, per forza di cose, alla vigilia della deflagrazione a catena che, tra la primavera del 1975 e l’autunno del 1990, per poco non si portava via la città come il paese. In quell’anno 1974, Beirut passa per essere la metropoli del Vicino Oriente. Il suo peso demografico, che supera il milione, rimane modesto rispetto al Cairo, e anche a Damasco. Capitale di uno degli Stati arabi più piccoli, non può certo rappresentare un centro decisionale capace di determinare le azioni degli uomini altrove o di far muovere le diplomazie, anche se l’ospitalità data alla leadership della resistenza palestinese la pone al cuore di una dinamica politica che trascende le sue frontiere. Dall’inizio degli Anni Sessanta Beirut è tuttavia, incontestabilmente, uno dei principali poli di attrazione nell’area. Di tutti gli altri luoghi di vita cittadina araba è inferiore forse soltanto al Cairo. E in ogni caso, non in tutti i campi.
Centro bancario, città universitaria, capitale della stampa e dell’editoria arabe, polo ospedaliero, snodo di traffico aereo, mercato aperto a tutte le transazioni commerciali o bancarie, dalle più comuni alle più equivoche, Beirut svolge sicuramente funzioni che superano il quadro territoriale della Repubblica Libanese. E ne riceve i dividendi in valuta, in tutte le valute. Senza essere una città di ricchi, ne ha tutta l’aria e, poiché il denaro attira denaro, immagina di poter riposare sulla spensieratezza di fortune che nulla mai potrà scalfire.
Estroversa per i ruoli che gioca, la città lo è anche per il suo modo di essere. Il suo segno distintivo, e ciò che fa senza dubbio la sua reputazione, quello che si usa chiamare il suo fascino, non sono soltanto i servizi che rende, è anche, e forse soprattutto, il fatto di essere una città in movimento. Senza eguali nel raggio di parecchie centinaia di chilometri. [...]
Qui, non c’è giusto mezzo, per lo meno non ancora. Si è immediatamente conquistati. Più di rado infastiditi. Dal kitsch, dallo sfoggio talora indecente di ricchezze, dall’assenza di gravità, da troppa leggerezza, ostentazione, affettazione. Ma se Beirut può suscitare il rigetto, ciò vale solo per una piccola minoranza che però evita in genere di parlarne. La città è già molteplice, offrendo a ciascuno, pur se restio, la possibilità di farvi il nido. E, bisogna dire, la offre più volentieri a chi viene da lontano che non ai paria delle sue periferie. Perciò, nessuna tara, nessun vizio riuscirà a intaccare l’immagine di oasi di libertà che, prima di altri, i suoi «utenti» arabi, esuli politici o economici, intellettuali perseguitati o semplici turisti in cerca di aria fresca intessono attorno a Beirut. E tanto meno a incidere sulla leggenda che le elegie funebri, più tardi, fisseranno.
La leggerezza, il kitsch, l’ostentazione da operetta, il denaro facile, altrettanti atout, in ogni caso, per l’altra immagine che Beirut proietta contemporaneamente. Oasi sul mare per gli arabi, la città è, per gli occidentali, l’Arabia più familiare. L’esotismo in versione minimalista, l’avventura nel lusso – o la sua contraffazione –, il complicato Oriente nel comfort delle lingue e dei costumi. [...]
Beirut, fra tutte le città arabe, è quella in cui si incontrano più europei e americani. E non solo sulle spiagge e nelle stazioni balneari, nei bar e nei grandi alberghi. Anche nelle scuole e nelle università, negli uffici degli uomini d’affari, nei saloni delle banche, nelle redazioni dei giornali, senza dire delle cancellerie diplomatiche, assai più popolate di quanto richiederebbero le dimensioni del Paese e la sua influenza politica.
Capita che tutti questi luoghi – salvo, di massima, quelli votati all’insegnamento – si concentrino in uno, ed è allora il bar dell’hotel Saint-Georges, con quello dell’hotel Normandy, a conferire a Beirut le sembianze di una zona franca dell’intrallazzo e della cospirazione. Già negli Anni Cinquanta, la città è la retrovia degli apprendisti stregoni della Cia che, attorno a Kim Roosevelt, praticano il game of nations, come uno di loro battezzerà la combinatoria di manipolazioni che si sviluppano sul fondale della guerra fredda, dalla Teheran di Mossadeq al Cairo di Nasser. Malgrado l’allineamento del Libano ufficiale con gli Stati Uniti, ben illustrato dallo sbarco dei marine nel 1958 prima di attenuarsi un po’ all’epoca dello stretto coordinamento con l’Egitto nasseriano, Beirut è uno dei ventri molli della guerra fredda, una sorta di città neutrale dei servizi segreti in cui si possono allacciare tutti i contatti, con discrezione o pubblicità, secondo le esigenze del cliente.
Con l’eccezione del 1958 e forse poco più tardi, alla vigilia della guerra del 1975, grandi e piccole manovre non hanno quasi mai il Libano per oggetto. Come in certi film americani o europei di serie B che fanno sparire la montagna, la pianura interna e perfino Damasco per fare di Beirut un porto del deserto popolato di beduini, il mondo parallelo non vi si fissa se non per meglio scavalcare la frontiera. Obiettivo: la Siria, ma anche l’Iraq, la Giordania, l’Egitto e perfino l’Iran, tutti Paesi assai ben rappresentati a Beirut da coorti di agenti più o meno segreti come da esuli politici, la cui presenza non fa che moltiplicare gli ordini di missione diramati dalle «centrali» all’indirizzo delle loro connessioni beirutine.
Beirut non serve soltanto alle pastette orientali, come mostra la letteratura di spionaggio. È lì che Kim Philby, straordinaria e assolutamente reale spia britannica, scelse di sparire e di riapparire prima di eclissarsi per davvero sotto la copertura del Kgb. E se James Bond non è stato avvistato al bar del Saint-Georges dove Philby celebrava i suoi riti, fa però una breve incursione in un ritrovo immaginario della città per vendicare l’assassinio del collega 002 e in via accessoria trovare la pallottola d’oro che lo porterà poi su una pista molto discosta dalla città. Il suo autore preferito, il grande Eric Ambler, non fa comunque a meno di ricorrere ai servizi di Beirut, vuoi per spiegare la psicologia di un personaggio ricco di sfumature alle prese con la rusticità di Sofia, vuoi per impartire un ordine di trasferimento bancario su Ginevra. [...]
Non diversamente da James Bond, Tintin non cercherà l’avventura a Beirut, anche se è sicuro che vi abbia fatto scalo almeno una volta sulla strada del Khemed (Coke en stock). Da buon reporter che pratica il terreno, preferisce gli spazi aridi. Ma Beirut non ne è che l’anticamera e niente pare dovervi accadere, fuorché giri segreti di armi e il rilassamento dopo l’azione, e qui l’inviato speciale, tra riposo del guerriero e tournée granducali, spigolerà voci diplomatiche e frammenti di informazione che gli permetteranno di capire le società del Vicino Oriente cominciando, peraltro, con l’ignorare quella che lo circonda. Come scriverà il giornalista americano Jonathan Randal nel suo libro-reportage sulla guerra del Libano, la prima reazione di fronte allo scatenarsi dei combattimenti fu l’incredulità.
Decisamente, a Beirut potevano accadere delle cose. Accadrà molto di più di quanto chiunque avesse potuto immaginare.
La Stampa
21.9.09