Verrebbe da dire: me la sono cavata,
fermo al tavolo della cucina,
mentre tutti
dormono e fuori
la pioggia ha battuto la notte
e le dita del mattino animale azzurro
scavano nel buio.
Verrebbe, ma
cos'è ancora questo vino luminoso
e amaro che mi esce tra i denti,
non si dissolvono i fantasmi d'amore seduti,
la luce sale, li sbianca,
sono il viso
di donne, le mani di stracci, carta pesta
nell'acqua degli anni.
Me la sono cavata
nel passaggio da un giorno all'altro
su questo buio braccio di mare -
ma lei è così lontana,
la vita
è così lontana, il mio amore
è inseguimento di chi
è sempre presente.
Forse perché sul molo
di Stone Island, in un mattino splendido
e ghiacciato, nel mezzo della corsa
della mia vita, sentii
tutta l'oscurità del mare,
l'enigma e il suo inesausto parlare
che arriva in questa cucina, in una città
italiana, nel silenzio spogliato -
è il vibrare del frigorifero
a trovare la stessa nota dell'oceano,
o la luce del video
acceso a nessuno
rende a queste stanze un chiarore di fondale.
Verrebbe da dire: me la sono
cavata, ma non è mai detto e non è
nemmeno giusto da dire
se l'infinito un giorno
e molti giorni in una vita
ti è venuto a visitare.
La notte è la notte e va
dove deve andare
dove scompare la curva veloce,
l' autostrada, il covo, il buio
che risucchia gli occhi stanchi -
i cani del mio inseguimento.
E' la notte in quel bersaglio fuggente,
fiore senza luce
e tra i molti fari lo spasmo.
C'è la folla muta, piovere
in quel nero, l'acqua sconosciuta
dei volti sorpresi
controluce, gli altri andare…
Viaggio stordito, ripido
venire di sonno nelle braccia.
Alzati
canto
dalle macerie del giorno,
nota che hai le ali chiuse
apriti
sul film che si riavvolge di oggi,
sulla strada di grandi bar e palazzi
illuminati sulla riva del mare
e su ogni splendore lasciato
come un sorriso alle spalle.
Canto che sei solo un canto e che vai
cerca il suo volto,
il suo fuoco nei giorni che diranno perduti,
il passaggio, quel saluto
di Dio ai ciechi e alle donne da poco.
Ti ho cercata nel mio corpo e ovunque
nella notte, mia felicità
fatta di niente
di vedere improvvisamente le mani
fatta solo del proprio grido.
E nelle strade che sembravano andare, venire
senza portare quel viso
in una luce irrefrenabile
ho vissuto pedalando lentamente sotto una pioggia
che sembrava cadere da sempre
L'hai trovato nel mio petto
il mostro di voler bene da lontano - -
quel che le guarigioni del sole
non alleviano
le fedeltà che bruciano in nostalgie
quel che non ha scampo
le dita del deserto ai miei occhi che risalgono
l'amore che gridando d'amore s'allontana.
Ma con te che hai il petto piccolo, e trema
freddo come il mio
posso bere stasera dalle mani i vini
d'aria che il cielo ha fulminato
alzare lo sguardo brindisi
da questa sedia al mondo intero,
al corpo pieno di notte del mistero…
Com'è bella Bologna sotto la neve e tu
come sei bella sotto il lento
cadere dei miei baci
che si posano un istante e svaniscono
sulle tue labbra e poi riappaiono -
è oro e ghiaccio via
Indipendenza, la neve un furto gentile
ha rubato le voci, le accellerazioni,
se n'è volata e così
sia, un poco d'impazienza dagli occhi.
Rallenta il ventre della città, sussulta
più piano, sembra il ritmo giusto
per dirti ti amo.
Ma anche in questa confidenza
è gelo, argento, una
spada
la mia vena di solitudine in cuore,
sguardo
immobile dentro la guerra,
ancora desiderata
l'acqua gelata sul volto.
Non andartene, se puoi, visione della
nevicata,
resta a ricevere piccoli fiocchi
sui capelli, sulle dita tremanti
con la sigaretta
fammi dormire nel tuo buio silenzio bianco
Tu, mio bene, non hai un rifugio per me
ma la traversata di un braccio di mare -
non c'è riposo per me nel tuo respiro
ma colpo di vento alle vele chinate
alle parole d'amore che ho in mente.
Ragazza che sei sul mare, sul buio
mormorare, vedi quali occhi
al magnesio ti guardano dai fondali
come una statua da mille anni sommersa
che al tuo passaggio riprende
a sentir le mani che l'hanno desiderata
E' sera, il vento
muove finalmente le grandi, pesanti
tende del giorno.
Il caldo fermo
è colpito
e per un attimo vortica quel fiato prima di salire
a una strana danza tra i rami,
gli ondeggianti lampioni.
Tu sei questa improvvisa mossa dell'aria
che non si sa da dove viene
corre lungo le pareti e forse
spinta dai pennelli verdescuro degli alberi
da qualche mano bambina alla finestra
da un ridere argentino e perduto tra i tavoli
e ora viene a gonfiare i vestiti sottili
dell'uomo solo sulla piazza, la bici
posata al fianco, le braccia
che si alzano piano, a far andar via
la parte volatile della malinconia…
Davide Rondoni, nato nel 1964, a Forlì. Laurea in Letteratura italiana Università di Bologna, relatore Prof. Ezio Raimondi (110 lode). Ha fondato e diretto il Centro di poesia contemporanea dell'Università di Bologna. Ha pubblicato volumi di poesia (La frontiera delle ginestre, 1985; O les invalides, 1988; A rialzare i capi pioventi, 1991; Nel tempo delle cose cieche, 1993). Il libro di poesie Il bar del tempo, è uscito per Guanda nel gennaio '99 e ha vinto i premi Montale, Camaiore, Metauro, S. Domenichino, Caput Gauri.