 Ho aperto una palestra di vocali
Ho aperto una palestra di vocali 
e consonanti dieci anni fa; 
ho investito tempo e capitali 
in questa avvilente attività. 
  Non ho neppure l'autorizzazione 
(nel mio settore non ce n'è bisogno): 
un po' di malattia, d'ispirazione 
dovrebbero bastare. Poi, con sogno 
  d'imperitura fama ricordarsi 
di chiudere il negozio, fino a quando 
l'odore di cadavere, catarsi 
  finale di chi sta transumando 
trapasserà alle antologie. Spararsi 
nell'aldilà le pose, sogghignando. 
    Qualcosa di 
completamente nuovo, come il wurstel 
ripieno di formaggio americano, 
che addomesticato dall'acquisto 
riposa nello spazio 
rimasto tra il prosciuttto e gli assorbenti 
inerte come il docile stupore 
del peso che si scava l'interstizio: 
un tonfo sordo. Quattromila lire. 
  Qualcosa di 
tradizionale come 
il petto di tacchino, messo sopra 
la confezione d'acqua minerale, 
in bilico. Seimila 
trecentoventi lire. 
    Mio zio litiga sempre con mia zia; 
mia zia litiga sempre con mio zio, 
perocché in fondo in fondo esiste Dio, 
e tutto torna sulla retta via. 
  Mio zio lavora in Svizzera, a Mendrisio, 
non sa nulla di Kant né di Platone, 
ma non è deficiente né coglione, 
e nell'Olimpo opta per Dionisio 
  (infatti beve): troppo descrittivo? 
Come poesia, perٍ, non è scadente: 
almeno testimonia che son vivo 
  e che ragiono, o forse no (la gente 
capisce poco di quello che scrivo 
ma quello che capisce è sufficiente). 
  Ricordo che ogni punto dello specchio 
si dilatava. Ed io che avevo preso 
il rasoio guardavo me che vecchio 
mi guardavo, ventiseienne obeso   
  nonché bambino acuto in italiano, 
o innamorato di una di Malnate 
nove anni fa. Strinsi forte la mano, 
mi recisi la gola. E abbandonate 
  la schiuma e la salvietta scivolai 
per terra. Andando a sbattere la testa 
sul detersivo, tutto riversai 
tra gli additivi il flusso che si arresta 
  della mia vita. Mi stupى la strana 
ultima sensazione di chi muore 
con forte in bocca il novello sapore 
del proprio sangue misto col Perlana. 
    Adesso è questa 
bolletta dell'Enel. Luglio 
millenovecentottantotto, il due. Sull' 
orologio le 
diciannove e quarantacinque non sono una ragione 
per nessuno, oltre 
le mani che stringono senza capire il foglio 
del conguaglio, rosse 
le linee che contengono le cifre. E alla storia 
consegno questo. Né 
testimone di me o del mio tempo 
vedo inerpicarsi nello stretto dovere 
che ancora sgretola tempo e tempo dalle persiane, 
dove il deserto è una goccia 
che dall'infanzia prorompe 
in questa cucina 
    Contro il sogno banale della luce,
il suo volgersi in versi di Den Harrow,
la camicetta scollata m'aprivi
la sera Mandarina Duck™ di tutto. 
L'amore al tempo delle discoteche
bolliva tra rostri di marzapane
firmato Armani™. Io stavo seduto
al centro del pastone verde laser. 
Se mai si intravedeva una ragazza,
un pastrano di tette sullo sfondo
metallico del vomito il divano
si trasformava in astronave piccola, 
la Nay Oleary™ che ti bacia sempre.
La Toyoya sfrecciava nel silenzio,
i piedi stretti nelle scarpe Burlington™,
galleggiavo molle tra ormoni e guance, 
La Isla Bonita, Taffy, Gino Soccio.
  Aldo Nove e nato a Varese nel 1970. Come poeta ha pubblicato Tornando nel tuo sangue (Venezia 1989), Musica per streghe (1991) e La luna vista da Viggiù, nel volume "Quinto quaderno di poesia italiana contemporanea" (Milano 1994). Attualmente è caporedattore del mensile di poesia e cultura poetica "Poesia". Come narratore ha pubblicato presso Castelvecchi i racconti Woobinda e altre storie senza lieto fine (1996) e, nello stesso anno, Il mondo dell'amore, in Gioventù cannibale (Einaudi.