Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all'uno e all'altro vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato...
Invece camminiamo,
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore non si tocca.
Perduto ha la voce la sirena del mondo,
e il mondo è un grande deserto.
Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.
*
Non, Vita, perchè tu sei nella notte
la rapida fiammata, e non per questi
aspetti della terra e il cielo in cui
la mia tristezza orribile si placa:
ma, Vita, per le tue rose le quali
o non sono sbocciate ancora o già
disfannosi, pel tuo Desiderio
che lascia come al bimbo della favola
nella man ratta solo delle mosche,
per l'odio che portiamo ognuno al noi
del giorno prima, per l'indifferenza
di tutto ai nostri sogni più divini,
per non potere vivere che l'attimo
al modo della pecora che bruca
pel mondo questo o quello cespo d'erba
e ad esso s'interessa unicamente,
pel rimorso che sta in fondo ad ogni
vita, d'averla inutilmente spesa,
come la feccia in fondo del bicchiere,
per la felicità grande di piangere,
per la tristezza eterna dell'Amore,
per non sapere e l'infinito buio...
per tutto questo amaro t'amo, Vita.
*
Padre tu che muori tutti i giorni un poco
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli
e di te non t'accorgi e non rimpiangi
se penso la fortezza con la quale
hai vissuto; il disprezzo c'hai portato
a tutto cio' che e' piccolo e meschino;
sotto la rude scorza
il tuo candido cuore di fanciullo;
il bene c'hai voluto a tua madre,
a tua sorella ingrata, a nostra madre
morta;
tutta la tua vita sacrificata
e poi ti guardo come ora sei,
io mi torco in silenzio le mani.
Contro l'indifferenza della vita
vedo inutile anch'essa la virtù
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.
Io voglio confessarmi a tutti, padre,
che ridi se mi vedi e tremi quando
d'una qualche premura ti fo segno,
di quanto fui codardo verso te.
Benché il rimorso mi si alleggerisca,
che più giusto sarebbe mi pesasse
sul cuore, inconfessato...
io giovinetto imberbe ti guardai
con ira, padre, per la tua vecchiaia...
stizza contro te vecchio mi prendeva..
Padre che ci hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che s'oscurava, in faccia
alla finestra, e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina
facendo a gara a chi vedeva primo–
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere
ma con quella più amare te lo chiedo
che non vogliono uscire dai miei occhi.
Una cosa soltanto mi conforta
di poterti guardare a ciglio asciutto:
il ricordo che piccolo, al pensiero
che come gli altri uomini dovevi
morire pure tu, il nostro padre,
solo e zitto nel mio letto la notte
io di sbigottimento lacrimavo.
Di quello che i miei occhi ora non piangono
quell'infantile pianto mi consola,
padre, perché mi par d'aver lasciato
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.
*
Vivo in un ex voto a vedere come la marina
si comporta ingenuamente davanti
a questa levata di sole.
Le colline paion pecore dopo la tosatura.
Il promontorio in faccia all'isolotto di Bergeggi
è appena ricciuto di pinastri.
E il mare!
Conosco un mare brulicante d'oro
dove le vele sono fiamme esili;
uno, impalpabile da credere
ad un inganno degli occhi;
un mare che è tutto uno zaffiro liquefatto,
in cui si vorrebbe stemperarsi.
Questo, è una grigia lavagna,
appena argentata a levante.
Più di tutti i mari che so,
è questo che amo:
esso risveglia in me l'anima avventurosa.
Quand'ecco, nell'appropriato scenario,
il sole balza, bolla infocata,
sciorinandosi ai piedi
un tremolante tappeto arancione.
*
Vo nella notte solo per vicoli deserti
lungo squallide mura.
Al discorde rumor dei passi incerti
echeggiando le case come vuote, trasalgo di paura.
Si sfilacciano contro i cornicioni delle case
che occupano l'aria i nuvoloni;
e la fiammella gialla del lampione traballa su lastrici
che caldo vento bagna;
un'imposta si lagna solitaria.
In parole consuete in consueti passi,
giovinezza, trapassi - che non torni.
E se disgusto senti di te stessa, dei giorni inutili,
t'illude folle presentimento
- ed è quasi certezza - che torni un'altra volta,
povera vita stolta, la tua giovinezza.
Come gli altri come tutti ch'ebbero dalla vita
per la parte di stenti la lor parte di pane,
spinti come giumenti dalla fame e la foia
dove il buio li ingoia - così e senza pianto
ché gli occhi sono asciutti,
come gli altri come tutti tu che potevi tanto.
Come il vestito vecchio l'anima addosso mi pesa;
tutto intorno m'ingombra;
ogni cosa mi pare che mi copra il fiato,
ogni cosa mi pare mi stia sopra e non mi lasci piangere...
Quand'ecco nel silenzio afoso balza
da un organo sgorgando facile melodia.
E' un motivo di ballo:
ogni nota rimbalza perla su cristallo, fragorosa empie la via.
Qualche cosa di fresco di nuovo il sangue mi corre...
Indicibile, quello che provo.
E d'istinto io cerco nel buio l'improvviso organetto ove suoni.
Non più ciondoloni rasento il muro:
mi scosto, cammino diritto, nel mezzo, con piede sicuro.
E quando vicino gli passo, al legno che trema e che canta,
mi sento mutato d'un tratto nel sonoro strumento:
in corde metalliche tese cambiata ogni fibra, il corpo,
percorso da brividi, in fascio di nervi che vibra.
E come per l'ultima volta i tiepidi spiriti,
i fiacchi propositi chiamo a raccolta.
Il petto mi colma insolito orgoglio;
intorno mi guardo spavaldo, dico a me stesso: Voglio.
O mie montagne o boschi, solitudini a vista d'occhio aperte
sulle quali va l'ombra della nuvola e che il vento scorrazza;
odore al mattino di guazza, novità della terra
sotto lo scroscio improvviso quando tutto è intriso
e l'anima è nuova e la foglia;
correr d'acque stormir d'alberi fresco,
rifiorire del pesco nella campagna spoglia,
cieli tersi invernali, soltanto che vi pensi,
nella mia triste arsura che frescura versate!
Grande e verde che muori e rinasci continua,
taciturna che dentro a gran voce mi parli,
Natura, ove perde l'uomo se stesso,
estraneo a se stesso diventa per gli occhi
di guardare mai sazi, spazi stellati,
nella sete di forza mi siete alleati.
Chiaro lo sguardo s'è fatto nel volto,
pronte alla lotta le braccia.
Sento l'ebbrezza, quasi vento gelato sulla faccia,
della mia buona e vera giovinezza.
Quando il valzer precipita
ed ecco l'organetto si chiude d'un colpo secco.
Subito qualche cosa vien men, qualche cosa in me frana...
E la notte che il suono avea sgombra del buio e fatta giorno,
la vacua notte col silenzio e l'ombra mi si richiude intorno.
Resto debole e solo.
Vela al mancar del vento, la volontà s'affloscia;
ogni impeto cade, l'esaltazione, la fierezza, tutto.
Mi vedo andare per deserte strade vile miserabile brutto.
Sbuca da un nero portico e s'arresta nel mezzo della via,
m'interroga con occhi larghi un gatto;
miagola a me, poi ratto scivola via.
E mi butto da lato e rasento di nuovo le mura,
se il piede nel lastrico inciampa
o nella pausa del vento un fanale
divampa trasalendo di sciocca paura.
Volontà, che mi vali per i miei sogni immensi,
fondata sulla sabbia instabile dei sensi?
Si stacca sul mio capo rombando mezzanotte.
A me che vo vagando solo nella mia notte
cadono sul cuore come pietre quell'ore.
Nacque a Santa Margherita Ligure nel 1888 da modesta famiglia borghese e fece i suoi studi a Genova.Nel 1911 pubblicò un libretto di versi di intonazione carducciana, Resine.Sbarbaro fu scrittore di controllatissima misura, alieno da qualsiasi concessione alla retorica,capace di una essenzialità scarna e profondamente suggestiva, nella quale si avverte soprattutto la lezione del Leopardi.
Fra le sue opere:
"Resine" - 1911
"Pianissimo" - 1914
"Liquidazione", prose - 1928
"Rimanenze", poesie - 1955
"Fuochi fatui", prose - 1956
"Pensieri" - 1962
"Bolle di Sapone", prose - 1966
"L'ultimo scritto di Camillo Sbarbaro" - 1973